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Gilbert K. Chesterton, Eretici

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Gli esperti dell’opera di Gilberth K. Chesterton considerano Eretici (recentemente pubblicato da Lindau) come una sorta di anticipazione del più celebre Ortodossia. Si tratta di un testo del 1905 (mentre il saggio più famoso è successivo di tre anni) che può essere molto fruttuosamente letto dagli studiosi e appassionati di letteratura e cultura inglesi a cavallo tra il XIX e XX secolo. È composto, infatti, da una fitta serie di ritratti critici di scrittori e uomini di cultura dell’epoca.

La gran parte di essi, salvo Kipling e Bernard Shaw, non sono ora molto noti al pubblico italiano; e forse neppure a quello inglese. Eppure il volume di Chesterton mantiene un indubbio interesse anche oggi a motivo del criterio di approccio che il creatore di padre Brown utilizza – che può tranquillamente essere applicato per valutare tanta letteratura e saggistica odierna – e per la vivacità della scrittura, ricca di definizioni folgoranti e di formidabili paradossi.

Senza troppo preoccuparci, quindi, di conoscere i dettagli dell’ambiente culturale preso di mira da Chesterton (nel quale le note ad ogni capitolo aiutano a penetrare), il libro si può leggere con godimento ed utilità.

Fonte: http://www.sussidiarieta.net/it/Chesterton+Lindau+2010

Si diceva del criterio critico utilizzato da Chesterton. In fondo si potrebbe riassumere nel privilegio dato al «dogma». Con questa parola l’autore intende quel pensiero «forte» che è il solo interessante per l’uomo che non voglia perdere tempo in frivolezze. Da qui la sua tagliente critica verso tutti coloro che idolatrano l’assenza di dogmi e la necessità di superare ogni posizione «forte». Non solo; con implacabile logica, Chesterton mette in evidenza che anche il più relativista degli scettici, quello che per partito preso afferma di non avere nessuna convinzione metafisica e anzi irride tutti quelli che ce l’hanno e li accusa delle peggiori nefandezze, in realtà è egli stesso portatore di un «dogma». Un dogma di solito molto meno dimostrato e ragionevole di quello, per esempio, professato dal cattolico.

È per questa ragione che Chesterton chiama «eretici» gli autori che bersaglia impietosamente nella sua opera: checché essi ne dicano, sono portatori di una ben precisa teoria «forte»; benché disprezzino le visioni generali e dicano di occuparsi solo dei dettagli, sono attaccati al loro punto di vista come il peggiore dei fanatici; affermano scetticamente e in maniera un po’ snob che «la vita non vale la pena di essere vissuta», ma in realtà non possono crederci seriamente. Proprio in quanto gli scrittori analizzati sono portatori di un «dogma», Chesterton li prende in considerazione e li critica. Egli infatti definisce se stesso fin dalle Osservazioni preliminari come una persona che pensa «che la cosa più pratica e importante di un uomo sia la sua visione del mondo». E così parte all’attacco degli «eretici» che trova abbondanti nella letteratura e nella pubblicistica a lui coeva. E in modo politicamente molto scorretto definisce eretico «un uomo la cui visione delle cose ha l’ardire di differire dalla mia».

In quest’ultima frase già lampeggia il tono che pervade tutto il volume. Non è possibile qui neppure elencare sommariamente i temi e le problematiche toccate. Basti qualche esempio per spiegare il metodo del paradosso con cui Chesterton inchioda i suoi avversari. Offrendoci delle definizioni, che sono delle perle di saggezza e nello stesso tempo di umorismo.

Il primo suo bersaglio è lo spirito negativo, quello cioè di chi afferma che non c’è nessuna oggettività in campo morale eppure si sforza di costruire e propagandare una propria etica. Ma, scrive Chesterton, «La moralità moderna può additare solo l’imperfezione. Non ha alcuna perfezione da additare. Il monaco che medita su Cristo o Buddha ha in mente un’immagine di salute perfetta. Il devoto [bersaglio polemico dei moralisti moderni] riesce comunque a concentrare i suoi pensieri su una forza e una felicità colossali». E qui arriva la zampata: «Un giovane può astenersi dal vizio pensando continuamente alla malattia. O può astenersene pensando continuamente alla Vergine Maria».

Contro la superficialità di un certo esotismo allora (e anche adesso; si pensi alle vacanze) in voga: «L’uomo sulla nave da crociera ha visto tutte le razze umane e pensa alle cose che dividono gli uomini: alimentazione, abbigliamento, decoro, anelli al naso come in Africa o alle orecchie come in Europa. L’uomo nel campo di cavoli non ha visto nulla, ma pensa alle cose che uniscono gli uomini: la fame, i figli, la bellezza delle donne, la promessa o la minaccia del cielo».

A proposito di Bernard Shaw: «La verità è che è un grave errore supporre che l’assenza di precise convinzioni renda la mente libera e agile». «Il signor Shaw – aggiunge – non ha mai visto le cose per come sono realmente, perché in tal caso sarebbe caduto in ginocchio davanti a loro». Infatti «finché non comprendiamo che le cose potrebbero non essere, non possiamo comprendere che le cose sono» e quindi scoprire che «ogni istante di vita cosciente è un prodigio inimmaginabile».

Sull’umiltà tanto aborrita dai fautori del superuomo: «È una virtù così pratica che gli uomini pensano debba essere un vizio. L’umiltà ha così tanto successo che viene scambiata per orgoglio».

Sulle teorie salutistiche: «Un uomo deve mangiare perché ha un buon appetito da soddisfare e certo non perché ha un corpo da nutrire. Un uomo deve fare esercizio non perché è troppo grasso, ma perché ama il fioretto, i cavalli o l’alta montagna, e li ama in sé e per sé».
Un acido commento ante litteram a L’attimo fuggente: «La religione del carpe diem non è la religione delle persone felici, bensì di quelle molto infelici. Nulla ha mai inferto un colpo così fatale agli amori genuini e al riso degli uomini come il carpe diem degli esteti. Per essere realmente spensierati dobbiamo credere che vi sia una certa eterna allegria nella natura delle cose».

Si potrebbe continuare a lungo, ma veniamo alle Osservazioni conclusive sull’importanza dell’ortodossia. Anche qui bastino due citazioni. «Il cervello umano è una macchina per giungere a conclusioni; se non può farlo si arrugginisce». «L’uomo può essere definito come un animale che crea dogmi. Gli alberi non hanno dogmi. Le rape sono sorprendentemente tolleranti». Lui, Chesterton, non era una rapa, non gli interessava di farsi passare come tollerante. È un artista e, come tale, «non si accontenta di nulla se non del tutto».

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